Perdita della memoria autobiografica per danno alla rete di default

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 28 marzo 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

“Io so bene chi sono”, pensavo facendo l’impressionante esperienza di parlare con una persona che aveva perso memoria della propria identità, e mi chiedevo: “Cosa si prova a non sapere più chi si è?”. La domanda solleva una questione non da poco, perché non solo si interroga sull’esperienza soggettiva della perdita di un fondamento della coscienza di sé, ma apre uno spazio di riflessione sul rapporto fra identità e memoria. Riflettiamo su questo punto. È esperienza comune dimenticare qualcosa o perdere dei ricordi, pertanto concepire la completa cancellazione di nozioni o eventi di un periodo della vita, come esito patologico, può facilmente essere immaginato quale espressione più grave di una perdita di contenuti mentali che, nella forma minore della dimenticanza, capita a tutti. Ma è cosa ben diversa sapere o non sapere chi si è. Allora è lecito chiedersi: il riconoscimento identitario di se stessi è una questione di memoria? Ne siamo certi? Non è piuttosto una questione di conoscenza?

Si può osservare che dipende da cosa si intende per memoria e cosa si intende per conoscenza, ma è evidente che questi due concetti-chiave per lo studio della mente sono messi in discussione da un simile caso. Le teorie attualmente in campo, prevalentemente di tradizione culturale neuropsicologica, appaiono insoddisfacenti. Per la verità, proprio una delle teorie più accreditate e seguite in neuropsicologia, avanzata da Endel Tulving e basata su evidenze emerse da studi sperimentali, postula l’esistenza di due sistemi diversi e ben distinti, l’uno per la memoria e l’altro per la conoscenza. La dicotomia, intesa in senso rigoroso, non concede spazio alla possibilità che il “sapere chi siamo” sia allo stesso tempo memoria e conoscenza[1].

Intanto, la maggior parte dei ricercatori sostanzialmente identifica la memoria autobiografica con la memoria episodica, quando intende la prima come l’insieme delle esperienze episodiche della vita di una persona; un patrimonio di ricordi che rimane distinto da ciò che, con un lessico fenomenologico, possiamo definire il “vissuto del sentimento di sé”.

Un’altra angolazione teorica per affrontare il problema della memoria dell’identità consiste nel farne una questione di memoria cosciente. In altri termini, se si considera il sistema neurale della coscienza di ordine superiore, secondo la definizione di Edelman, distinto dagli altri sistemi e per alcuni aspetti indipendente, si può ipotizzare che nel caso delle amnesie identitarie la perdita di sostrato neuronico abbia compromesso la possibilità che la memoria-conoscenza di chi si è acceda alla coscienza.

Se questa impostazione è corretta, in ogni caso di perdita della memoria d’identità dovrebbe essere possibile evidenziare la differenza fra l’agire istintivo ed automatico, che dovrebbe integralmente rispettare le caratteristiche di identità, e il processo mentale cosciente di ricordarsi “come si è”, che può fallire in casi di danno cerebrale. Ma in realtà i casi, come ci ha insegnato anche l’esperienza del professor Rossi, non sono tutti uguali: si va da quelli in cui la perdita di memoria d’identità si associa alla conservazione di gusti, preferenze, stili, modi, mentalità e linguaggio, a quelli che, pur in assenza di una lesione prefrontale, pare abbiano cambiato personalità, oltre che gusti e preferenze. D’altra parte, sono stati osservati casi di lesioni neurovascolari del cervelletto e della base encefalica, in cui i pazienti senza alcun problema di memoria d’identità hanno cambiato gusti e preferenze. Ma in queste persone non si trattava di un semplice cambiamento, come quelli che possono verificarsi nel corso della vita, favoriti da esperienze, apprendimento o variazioni di abitudini, perché i pazienti mostravano di non ricordare più cosa gradissero e preferissero prima dell’evento patologico: non ne avevano memoria e, a volte, richiesti di motivare, prendevano a razionalizzare facendo tentativi di interpretazione sulla base di considerazioni generali, come se il cambiamento riguardasse un’altra persona.

I progressi delle neuroscienze biologiche e la crescente conoscenza di ruoli e connessioni funzionali del cervello umano mediante metodiche di neuroimaging, impongono l’avvio di una nuova stagione di ricerca delle basi neurali di queste fondamentali facoltà umane: non ci si può più accontentare, come mezzo secolo fa, di riportare ogni aspetto della fisiologia della memoria a modelli ricavati da lesioni dell’ippocampo o dalla perdita neurodegenerativa dei sistemi colinergici proencefalici[2].

Carissa L. Philippi e colleghi, sulla base di studi precedenti che hanno rilevato l’attività della rete neuronica di default (DMN, da default mode network) nella memoria autobiografica, hanno impiegato un approccio morfo-funzionale basato sul neuroimaging, per verificare se e quali aree della DMN sono necessarie per questa delicata funzione che consente di sapere chi si è. I risultati non solo evidenziano le componenti della DMN implicate, ma consentono per la prima volta di fondare su base anatomo-funzionale un’importante distinzione (Philippi C. L., et al., Damage to the default mode network disrupts autobiographical memory retrieval. Social, Cognitive and Affective Neuroscience 10 (3): 318-326, 2015).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Department of Neurology, Department of Communication Sciences and Disorders, Department of Psychology, University of Iowa college of Medicine, Iowa City, IA (USA); Department of Psychiatry, University of Wisconsin-Madison, Madison, WI (USA); Laboratory of Functional Imaging, UMR 678 INSERM, Parigi (Francia).

Prima si è accennato che, secondo Endel Tulving e la sua scuola, il sistema della memoria e quello della conoscenza sono ben distinti in base a prove sperimentali, ma è opportuno precisare che, come spesso accade in neuropsicologia, gli esperimenti sono stati realizzati dopo aver definito secondo una particolare concezione gli oggetti astratti che rappresentano le funzioni. In tal modo, non siamo in presenza di esperimenti che dimostrano l’esistenza di “oggetti neurali” quali reti o sistemi, ma solo la coerenza dei concetti definiti in precedenza con il comportamento messo alla prova. Vale la pena entrare più nello specifico. “Remembering” (ricordare) e “Knowing” (conoscere) sono intesi nella maniera seguente: “Remembering si riferisce ad esperienze intensamente personali del passato – quelle in cui sembra che noi ricreiamo precedenti eventi ed esperienze con la consapevolezza di rivivere questi eventi ed esperienze mentalmente. Remembering implica un viaggio mentale nel tempo che intimamente impegna il proprio senso di sé. Knowing si riferisce ad altre esperienze del passato, quelle in cui noi siamo consapevoli della conoscenza che possediamo, ma in una maniera più impersonale. Non c’è consapevolezza di rivivere alcun particolare evento o esperienza. Knowing include il generico senso di familiarità che noi abbiamo circa la conoscenza più astratta. Knowing include anche la consapevolezza di eventi che abbiamo personalmente esperito quando siamo consapevoli di tali eventi come fatti, senza riviverli mentalmente.”[3].

Tali dettagliate definizioni ritagliano due aree di ipotetica realtà psichica rendendole precisi oggetti di studio da sottoporre a sperimentazione, anche se i criteri del “taglio” non sono sottoposti a verifica sperimentale. Il vaglio degli esperimenti, dei quali consideriamo qui di seguito i risultati, è riservato alla possibilità che i due “oggetti ritagliati” corrispondano ragionevolmente a processi funzionali distinti e, su questa base, si renda plausibile la loro distinzione[4].

Remembering e Knowing sono influenzati in maniera diversa e in modo sistematicamente riconoscibile da differenti manipolazioni sperimentali; presentano variazioni sistematiche non identiche nelle popolazioni esaminate; rispondono in maniera diversa fra loro all’influenza dei farmaci; sembrano essere associati con schemi di attività cerebrale almeno parzialmente distinti[5]. Questi risultati della sperimentazione, seguita al lavoro di Tulving (1985, 1998)[6] sul ricordare e sapere come due stati diversi di consapevolezza del passato, hanno consolidato una visione che, in molte scuole di neuropsicologia, resiste fino ad oggi.

Si comprende il condizionamento determinato dalla precisione concettuale delle definizioni, e dall’autorevolezza della scuola, che hanno in breve condizionato l’adozione di questi criteri da parte della massima parte dei ricercatori, con l’effetto collaterale della sostituzione di queste costruzioni culturali a più generiche ed aperte indicazioni della realtà non conosciuta delle basi neurali di tutti i processi cognitivi in rapporto con i cicli di esperienza-conoscenza, supportati da memoria, che caratterizzano la nostra vita mentale[7].

Ripartire da evidenze di funzione cerebrale ottenute per scopi diversi da questo e non forzate in origine al ruolo di “correlati neurofunzionali”, potrebbe avere il merito di riaprire su questi processi cognitivi una finestra, forse chiusa perché occlusa da una rispettabile ma artificiosa costruzione teorica.

Torniamo al lavoro qui recensito di Carissa Philippi e colleghi.

Studi di neuroimmagine funzionale avevano dimostrato una partecipazione della rete di default alla memoria autobiografica, tuttavia non vi era stata mai nessuna documentazione di amnesie relative ai ricordi autobiografici per lesioni in aree del cervello corrispondenti a nodi riconosciuti di questa rete. L’opinione corrente in neuroscienze attende la verifica di studi di lesioni, perché è ragionevole supporre che evidenze convergenti da differenti lavori di osservazione di lesioni possano aiutare a chiarire il ruolo dei sistemi neuronici appartenenti alla rete di default nella memoria autobiografica. Quello di Philippi e colleghi è proprio uno di questi studi che, per verificare l’ipotesi secondo cui definite componenti della rete DMN siano necessarie per la memoria autobiografica, hanno proceduto ad una stima in termini di voxel (unità volumetriche visualizzate su uno schermo e corrispondenti all’estensione tridimensionale del tessuto cerebrale) delle lesioni, ponendole in rapporto con il deficit (voxelwise lesion-deficit approach).

I ricercatori hanno poi esplorato le due possibilità che i correlati neurali della memoria autobiografica semantica (SAM, da semantic autobiographical memory), cioè quella relativa al ricordo di nozioni appartenenti alla realtà personale, e i correlati neurali della memoria autobiografica episodica (EAM, da episodic autobiographical memory), ovvero il patrimonio di frammenti di vita vissuta, siano coincidenti oppure distinti.

Il campione era costituito da 92 pazienti, un numero insolitamente alto per questo genere di studi, spesso condotti su poche unità o addirittura su singoli casi; pertanto, la dimensione numerica della significatività dei rilievi è sicuramente garantita. Tutti i pazienti erano affetti da lesioni focali stabili e bene individuate. Le aree appartenenti alla rete di default secondo il criterio adottato dagli autori del lavoro erano le seguenti: 1) corteccia prefrontale mediale (mPFC, da medial prefrontal cortex); 2) corteccia posteriore del giro del cingolo o corteccia cingolata posteriore (PCC, da posterior cingulate cortex); 3) lobulo parietale inferiore (IPL, da inferior parietal lobule); 4) lobo temporale mediale (MTL, da medial temporal lobe). Danni a regioni comprese in questo novero di aree erano associati a difetti della memoria autobiografica.

I ricercatori hanno evidenziato che, all’interno di aree con estesa copertura lesionale, i correlati neurali delle due forme di memoria autobiografica, SAM ed EAM, erano ampiamente distinti, con aree limitate di sovrapposizione nella regione IPL dell’emisfero destro.

Importante sottolineare la differenza di sostrato neurale emersa fra le due forme di memoria autobiografica distinte secondo il criterio neuropsicologico convenzionale: i deficit della SAM erano associati a danni di mPFC e MTL dell’emisfero sinistro, mentre i deficit della EAM erano associati a danni di mPFC e MTL dell’emisfero destro[8].

Concludendo, e in attesa della verifica di altri studi, questi risultati costituiscono una nuova evidenza morfo-funzionale del ruolo di parti della DMN per la cruciale funzione identitaria della memoria autobiografica. In senso più generale, si può dire che i risultati di questo studio forniscono un contributo per la comprensione del modo in cui la DMN interviene nell’elaborazione autoreferenziale.

 

L’autrice della nota, che ringrazia la professoressa Monica Lanfredini per correzioni e suggerimenti sulla forma del testo e il professor Giovanni Rossi per la discussione sulla neuropsicologia della memoria, invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-28 marzo 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] La questione rimane aperta e la brillante soluzione in attesa di prove sperimentali, proposta tanti anni fa dal nostro presidente, è ancora poco nota.

[2] L’esempio paradigmatico del primo tipo è quello della lesione focale dell’ippocampo del paziente H. M. descritto da Brenda Milner, che per decenni continuò a incontrarla e non riconoscerla, avendo perso la capacità di formare nuovi ricordi, l’esempio paradigmatico del secondo è costituito dalla degenerazione alzheimeriana.

[3] Gardiner J. M. & Richardson-Klavehn A., Remembering and Knowing, p 229, in Endel Tulving & Fergus I. M. Craik (editors), The Oxford Book of Memory. Oxford University Press, New York 2000 [traduzione tratta da G. Perrella, Ricordare e Conoscere. BM&L-Italia, Firenze 2003].

[4] Questo argomento è stato discusso in dettaglio con il professore G. Rossi, ai cui scritti si rimanda per critiche più analitiche e specificate.

[5] Cfr. Gardiner J. M. & Richardson-Klavehn A., op. cit., p. 239.

[6] Tulving E., Memory and Cosciousness. Canadian Psychology 26: 1-12, 1985; Tulving E., Memory: Performance, knowledge and experience. European Journal of Experimental Psychology 1: 3-26, 1998.

[7] Si rimanda a descrizioni ed ipotesi della nostra scuola neuroscientifica, basate sugli studi delle scuole che fanno capo a Michael Gazzaniga e alle neuroscienze cognitive del MIT, a Gerald Edelman, Eric Kandel, ecc. 

[8] Questo rilievo è coerente con la classica dicotomia funzionale emisfero destro/emisfero sinistro, provata soprattutto dalla sperimentazione condotta dal gruppo di Michael Gazzaniga su pazienti split-brain, e caratterizzata dalla prevalenza categoricale dell’emisfero sinistro, associala alla facoltà di linguaggio (afasia per lesione sinistra), e dalla prevalenza rappresentazionale dell’emisfero destro, più spesso specializzato in compiti spaziali, effetti di insieme ed aspetti qualitativi dell’esperienza come la prosodia nell’eloquio, l’armonia nella musica, i caratteri cromatico-tonali delle immagini.